Il fieno di Comba Mià

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La cascata di Comba Mià
La cascata di Comba Mià

La prima volta che sono giunto in quel luogo, risalendo dapprima la Gran Comba e poi un rio laterale segnato da una bellissima cascata, rimasi stupito di scoprirvi una casa, diroccata e male in arnese.
Ho saputo di recente che quella è la mianda di Comba Mià e quello della bellissima cascata è l’omonimo rio.
Mi ha raccontato tutto questo un uomo nato a Feugiù – Pramollo – che, all’età di dieci anni, presso quella mianda andava a farci il fieno con la mamma.
Mio padre e mio fratello, più vecchio di me, lavoravano via e gli unici che potevano fienare i prati di Comba Mià eravamo noi due. S’andava al mattino e si rimaneva là tutto il giorno. Il problema non era tagliare l’erba e farla seccare, ma portare a casa il fieno. I fardelli pesavano circa venticinque trenta chili, ma quando si arrivava a Feugiù avevano raggiunto il quintale. Una fatica immane.

La Gran comba
La Gran Comba

La prima tappa era alla Ruciasa, poi alla Plasa del Bric, a Prà Bernart e infine Feugiù.
Ad ogni tappa per riposarci si tornava indietro fino a quella precedente a prendere un secondo carico, così che alla fine di fasci di fieno, a casa, ne giungevano due per persona.
Il nostro amico, oggi anziano, ricorda con una smorfia quei tempi e quel lavoro, a dieci anni.
Il fieno serviva per due mucche e alcune capre, che sarebbero rimaste nella stalla per lunghi sei mesi nella stagione fredda.
Si potrebbero raccontare cento altre vicende come questa, quotidiane, d’un lavoro aspro per strappare alla terra il cibo per la famiglia.

Giglio martagone o Riccio di dama
Giglio martagone o Riccio di dama

Ascoltando il racconto il nostro pensiero è corso lontano, indietro nel tempo.
La mente umana ha la capacità mirabile di modificare e ampliare gli anni lontani, o di restringerli tanto da farli quasi scomparire e collocare, gli uni e gli altri, fuori dal tempo reale.
È così che la mente crea, senza saperlo, le leggende e rende belli i ricordi.
Tutto questo succedeva ancora nei primi anni sessanta del ‘900. Poi, in un baleno, tutti lasciarono Feugiù in cerca d’una vita migliore.
Quando sono stato a Comba Mià fui colpito dalla posizione di quella mianda, ma dovetti tenermi i miei interrogativi. Mi carezzò il cuore un giglio martagone, fiorito in mezzo alle alte erbe cresciute tra i sassi e le pietre crollate della casa; anche questa una sorpresa. Nessuno mi aveva mai parlato di quel bellissimo fiore, tanto da lasciarmi pensare che fosse assente nel vallone della Vaccera.
Mai me lo sarei aspettato, come mai avrei immaginato la storia di quel posto.
Oggi, guardando da lontano quei luoghi, si scorgono ovunque boschi fitti, nessun prato e grandi solchi scuri scavati nella montagna lasciano intuire la presenza di rii e ruscelli, di combe.
Quelle combe, quei luoghi adesso selvaggi nascondono la nostra di storia di appena ieri.
Ora si svela il mistero dei bari che emergono un po’ ovunque, i segni di antichi acquedotti, di sentieri ancora visibili sotto il bosco dove l’acqua e l’erosione non hanno cancellato l’opera dell’uomo.
Ecco il perché di muri massicci improvvisi e senza senso apparente che paiono riparare da grandi acque, quelle delle alluvioni, di quando Gran Comba e Rusiart scendono ‘vestiti da festa’, come scherza un altro anziano.
È la mia storia, la nostra, che riappare ed emerge dal passato, a stupire, senza preavviso.
Improvvisa e bellissima. A colpire. A ricordare di quale terra siamo figli.

Le Combe di Pemian
Le Combe di Pemian