Da un po’ di tempo il silenzio dei boschi e delle radure, sulle colline e sulle prime pendici delle montagne, è rotto da canti. Solitari, forse un po’ malinconici, ma bellissimi.
Segnano il correre del tempo e annunciano la fuga, non più lontana, del freddo. Che non sempre si arrende alla primavera.
La prima a rompere il silenzio è stata la tordela. Non è a casa sua, che ha lasciato più in alto quando è arrivato l’inverno, ma fa finta di esserlo e canta lo stesso, per segnare quello che è il suo territorio provvisorio. Immobile sugli alberi più alti, canta per se e per quanti la conoscono e l’amano. Quando smetterà per raggiungere la sua vera casa, lontana lassù, sarà primavera piena.
Poi è stata la volta del merlo a offrire note belle, nella penombra del mattino che sorge e al crepuscolo quand’è quasi buio. Difficile vederlo, si nasconde nel folto dei cespugli.
Infine ecco il tordo, tordo bottaccio per i nostri padri e, la loro griva, in dialetto, la mitica griva.
Le sue sono le note più suadenti e più dolci, tanto da rivaleggiare, nell’arte musicale, nientemeno che con l’usignolo – quando arriverà dall’Africa. Inutile cercarla, sembra avere il dono dell’invisibilità: di se soltanto il canto concede.
Tempo scandito dal canto, stagioni mosse dalla musica degli uccelli e dalla neve che lentamente si confina sempre più in alto. Giorni naturali a misura d’uomo regolati dalla luce del sole.
Anche in città si possono cogliere i segni dell’antico orologio della natura. Magari un po’ nascosti, non sempre facilmente decifrabili. Ma ancora belli, forse di più.
Per chi vuole ascoltare.
(Immagini di F. Moglia).