La scuola di Feugiù

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La scuola di Feugiù
La scuola di Feugiù

A Pramollo, seguendo il sentiero che da Rue risale il vallone verso il Colle della Vaccera, si incontrano tre villaggi principali, Feugiù, Crusas e Fajè. Poco oltre Feugiù, ben visibile anche dall’odierna strada carrozzabile quando in inverno le foglie lasciano passare lo sguardo, attrae l’attenzione una grande casa isolata, incombente sulla riva ripidissima, come appesa alle nuvole. Una bella casa, intonacata.
La scuola.
Lì si riunivano i bambini di tutto il vallone, per imparare a leggere e scrivere. La scuola era il centro di quella terra, l’elemento unificante, il cuore pulsante.
Eravamo 15 o 16 bambini tutti gli anni, racconta una delle scolarette di allora, oggi quasi novantenne.
Gli anni non hanno cancellato i ricordi, che emergono netti e chiari.
C’era soltanto dalla prima alla terza elementare. Dalla quarta in poi bisognava andare a San Germano, ma mia mamma non ne ha mai voluto sapere, troppo lontano, troppo pericolo. Così ho frequentato tre volte la terza: sapevo il libro a memoria.

La maestra Rosalia
La maestra Rosalia

La maestra era di Roccapiatta, Rosalia Forneron, una fascista convinta. Tutti i giorni s’entrava in classe col saluto romano. Non infliggeva punizioni, come stare in ginocchio, ma dava delle operazioni aritmetiche da svolgere.
Avevamo due o tre libri. Il sussidiario, il libro di geografia. Cinque o sei quaderni: per i riassunti, per l’aritmetica e gli altri. La penna per scrivere con l’inchiostro del calamaio. All’inizio avevo sei matite colorate, poi dodici. Bisognava stare attenti nel temperarle, per non sciuparle.
È difficile immaginare un gruppo di bambini correre a scuola vociando in quei luoghi oggi riconquistati dal bosco, fare gruppo nel cortile, uno dei rari tratti pianeggianti. Non accompagnati dalla mamma, non portati in macchina fin sulla soglia.
È difficile immaginare, anche se non sono passati secoli.
Oggi il vallone, con le borgate che confluivano sulla scuola dandole vita e traendone valore, è quasi deserto, di bambini non ce n’è nessuno. La lingua d’allora, il patois, non certo l’italiano, è quasi scomparsa.
La scuola non aveva acqua, racconta la nostra scolaretta, per questo la maestra abitava a Feugiù. Noi, per bere, un po’ d’acqua la portavamo da casa; e in inverno un pezzo di legno per scaldarci.
Da riflettere, oggi che ai bambini è vietato ogni sforzo.
I ricordi volano, come il tempo del nostro incontro con la scolaretta; com’è volato sui muri della scuola abbandonata, dimenticata, saccheggiata.
Hanno preso tutto, anche se c’era poco da prendere, e quel che non hanno potuto prendere l’hanno rotto, distrutto. Una sola traccia rimane, una sola reliquia a dire che quella era una scuola: lo scheletro della lavagna in un angolo dell’aula. Trafigge il cuore, oggi, la scuola di Feugiù. Bisognerebbe farne un monumento, lasciandola com’è, e invitare i discendenti di quelle scolarette e scolaretti ad andare a visitarla, una volta all’anno, per vedere quel ch’è stato, per non poter dire di non aver saputo, di non esservi mai passati. Per non dimenticare.
Sono uno di quei discendenti.
Grazie, scolaretta di quasi novant’anni. Ci hai fatto risentire le grida e le risa dei bambini di allora; pure la voce della maestra. Ci hai ricordato da dove veniamo.
Dove andiamo non lo sappiamo.

La lavagna
La lavagna

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