Tartaréië

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Fraisse è il villaggio di Usseaux più a monte, poche centinaia di metri da Pragelato, all’estremità superiore della valle.
Metà sorge sulla sponda destra orografica del Chisone e metà su quella sinistra.
Tartaréië il suo soprannome e lou tartarios i suoi abitanti. Perché ogni borgata aveva un soprannome, che tutti conoscevano e tutti accettavano, anche se a volte era alla base di prese in giro, ma anche di gioco. Pure di contese.
Ieri come oggi, solo che oggi il vezzo dei soprannomi s’è perso.
Le case sono tutte attaccate e le stradine che permettono d’andare a vederle sono strette, pavimentate di pietra; non quelle originali, grossi ciottoli sistemati con cura, tenuti assieme soltanto dalla bravura dei vecchi padri, ma rettangolari, poste di taglio vagamente a lisca di pesce, saldate le une alle altre dalla bravura e anche dal cemento.
Ogni tanto sui muri una data a dire che il villaggio è antico, che lì è passata la storia, che lì gli uomini hanno vissuto per secoli, in quei luoghi che si presentano oggi come ieri: gli stessi spigoli di case, le stesse finestre, le stesse prospettive; sotto lo stesso cielo.
Non è ancora periodo di vacanza e sulle case regna il silenzio che aiuta l’immaginazione a galoppare. Per scoprire quella gente, oggi assente, lontana, al lavoro o emigrata, per ascoltarne le voci nella lingua delle Repubbliche degli Escartun; per sentire gli odori e i profumi, delle mucche nelle stalle, oggi deserte, e dei larici scrollati dal vento, eterni sulle falde della montagna.
Sui muri delle case pannelli di legno scolpiti raccontano quella vita che possiamo immaginare, a mostrarcela bella, forse più di quanto fosse in realtà.
Lasciamo la metà destra e, attraversato il ponte, ecco la chiesa dedicata a Filippo e Giacomo.
Chiusa.
A lato, appena discosta per non togliere spazio alla piazzetta, una grande fontana. Lì si riunivano – e si riuniscono ancora – le genti la domenica, con abiti diversi e linguaggi mutati ma spirito uguale, di gioia nel restare assieme, di voglia di parlare, sentire e raccontare.
Come non fosse passato il tempo.
Anche il canto dell’acqua di Chisun che si mescola a quello della fontana è uguale a quello antico.
Eppure il rumore delle auto in alto, sulla strada fuori dalle mura, e le parole nel vento dal suono diverso dall’antico occitano, dicono che il tempo ha corso.
Fraisse l’ha guardato passare con distacco, ha cambiato un po’ i lineamenti e aspetta.
Osserva.
È la forza delle cose belle, di quelle che hanno cavalcato le onde del tempo restandone fuori per poter raggiungere il futuro.


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