Il pane di Fontane

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La prima volta che abbiamo visto Fontane, le siamo arrivati addosso dall’alto.
Saliti da Salza per la strada sterrata innevata attraverso il bosco di abeti bianchi, abbiamo raggiunto il Colle delle Fontane, e da lì abbiamo scorto le case in basso, rannicchiate nei colori dell’inverno.
Silenziose e addormentate come ovunque succede nel villaggi alpini quando regna il freddo. Sparse nel piano che le ospita, protetto alle spalle da una immensa parete rocciosa, che oltre a difenderle, trattiene il calore a rendere più ospitale quella terra.
Si scende lentamente verso le case sul terreno coperto di neve, al caldo, perché lì il sole bacia la terra senza risparmio.
I nidi degli uomini si avvicinano lentamente. Da qualche camino esce un filo di fumo. Spauriti panni stesi sui balconi confermano che qualcuno vive in quel luogo.
Entriamo tra le case da est, con l’ombra lunga davanti a precedere i passi.
Fontane ha una via centrale parallela all’asse della valle e da lei partono alcune viuzze più strette, verso monte, verso la grande parete rocciosa, a insinuarsi tra le case.
In un varco coperto tra le case, quasi una nicchia, il forno. Pulito e ben tenuto. La bocca ha i baffi del fumo attorno. Da lì esce ancora pane, non più importante come un tempo, ma speciale, fatto a mano senza macchine a impastare. Magari per la festa, magari soltanto per ricordare, per sentire ancora il profumo diffondersi dolce tra le case; per il piacere di rompere un pezzo di pane e portarlo alla bocca ancora tiepido di forno.
Grandi fontane accompagnano chi passa, con due o tre vasche di acqua che gela le mani soltanto a guardarle.
Tanta acqua perché lì erano tante persone, prima dedite all’agricoltura poi alle miniere, che ovunque infilzano la montagna ricca di talco, del migliore al mondo.
I segni sono ovunque: cabine elettriche, bocche di miniere murate, perché oggi l’attività estrattiva ha cambiato sembianze. Meno braccia e più macchine. Almeno, il lavoro sotto terra è più sicuro.
La faccia di Fontane è cambiate assieme alle miniere.
Quelle hanno chiuso in molte e la gente s’è fatta vecchia; soltanto la grande parete rocciosa ha mantenuto intatte le sue sembianze.
Le rocce non hanno tempo. Non lo subiscono e lo condizionano e soltanto i millenni più lunghi riescono talvolta a scalfirle.
I luoghi dell’uomo subiscono il tempo, quello lungo degli anni e quello breve delle stagioni, velocissime a mutarne il viso.
L’immagine prima che abbiamo avuto di Fontane, ferma nel freddo, a tratti nella neve, è lontanissima da quella recente con le case avvolte dal sole e dai colori dell’autunno. Stesso luogo, stesse rare persone, qualche cane curioso, stesse fontane a chiacchierare d’acqua qua e là lungo le vie.
Eppure sembra un altro mondo.
Il tempo. Il tempo che corre con una grande tavolozza dei colori in mano, a rendere sempre diverso, e bello, sempre nuovo il mondo, che non debba mai annoiare, che possa sempre attrarre l’attenzione e dare piacere, perché non appassisca mai l’amore per la propria terra.
Non abbiamo mai visto Fontane sotto la pioggia, ma siamo certi che sarebbe bellissima anche in bianco e nero; troveremmo qualcosa di unico che soltanto l’acqua del cielo quando non c’è il sole sa proporre, sa mostrare.
Forse non è questione di tempo o di stagioni, ma soltanto di discendenza. Ai suoi figli una terra appare sempre bella, e quando capita che i figli non s’accorgano della bellezza dei luoghi che li hanno visti bambini, forse è perché, senza saperlo, senza volerlo, hanno perso qualcosa.
E non hanno più passato.
Non hanno più futuro.

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