La mia Villar era fatta di operai di corsa che uscivano in gregge dalla RIV, puzzando di petrolio, di fretta e di speranza. La mia Villar era gente che parlava piemontese e sorrideva al futuro; erano bambini che correvano a casa da scuola a prender la merenda dalle mani della mamma o della nonna: pane e formaggio, miele, marmellata, un po’ di frutta.
Niente kinder.
Era bella la mia Villar.
La mia Villar oggi è di vecchi che sorridono poco, ma camminano tranquilli perché le strade sono asfaltate e di notte è tutto illuminato; hanno dimenticato cos’è la corsa perché curvati dal tempo.
Ieri c’era l’ambulatorio, nella mia Villar, le aiuole fiorite, il cinema aperto, profumo di pane, sferragliare del tram e Gianni che cantava a squarciagola; oggi non canta nessuno. Ma tutti hanno almeno un’auto e un cellulare.
È triste la mia Villar, oggi, grigia perché non ci sono più cedri lungo la Nazionale.
Ma è la mia Villar, sempre bella, e io l’amo, oggi come allora, ma con tanta tristezza nel cuore. Perché anch’io son vecchio, e secche le mie speranze.