Mio nonno li chiamava Berbesin. Ma anche Mutun, che in piemontese arcaico significa montone.
L’ho sentito chiamare anche Galinas. Un amico della Valle Po lo chiama Uriin, orecchietta.
E mille altri nomi.
Di cosa parliamo? Di un fungo che cresce in autunno ai piedi dei castagni, tra le loro radici affioranti, a volte anche sul tronco.
Quando di una pianta o di un animale ci sono tanti nomi, significa che è nel cuore della cultura di una gente, che fa parte dell’immaginario collettivo in modo indelebile. Significa che fa parte del mito.
Il Berbesin, lo chiamiamo così perché questo è il suo nome nella nostra famiglia dalla notte dei tempi, è creatura mitica. Se lasciato crescere assume dimensioni gigantesche, anche decini di chili.
Ma non è così, non è più così: oggetto di una ricerca spietata, spesso da parte di persone che nulla hanno a condividere con la sua storia, sempre più spesso il Berbesin viene raccolto piccolissimo.
Un peccato, uno spreco; moralmente, per la mia Gente, un sacrilegio. Che graffia, che offende.
Succede quando le persone sono slegate dalla terra, quando non la sentono loro: non la amano e non la rispettano; soltanto, la sfruttano e la rapinano.
Deve essere uno dei mille frutti della globalizzazione, uno dei suoi tanti cascami.
A noi piacerebbe un mondo più piccolo, a misura d’uomo e di grande Berbesin.
Come si chiama in italiano? Il nome scientifico?
Non ve lo diciamo.
Il magico fungo dei castagni, per noi, si chiama Berbesin, Mutun, Galinas, Uriin… e con tanti altri nomi così.
Tutti incastonati nella terra. E niente altro.
Il ‘Berbesin’
on 6 Ottobre 2018
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