Le valli grigio verde

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(Pre scriptum).
Quando abbiamo scritto le righe che seguono, eravamo sopraffatti dal tempo uggioso che da una settimana ci incupiva.
Un dubbio, in verità, ci era venuto: vuoi vedere che se scriviamo che il tempo è impazzito, da domani fa bello? Ma avevamo scartato l’ipotesi quale manifestazione di sciocca superstizione, o semplicemente quale pensiero sciocco.
In effetti il giorno dopo non era cambiato nulla.
Sono occorsi due giorni per poter godere di giornate assolate!
Bellissime.
Di primo acchito c’è venuta voglia di buttare tutto e scrivere d’altro. Poi, dato che il cambiamento climatico è realtà e non idea nostra, abbiamo lasciato la nota com’era.
Al più, la prossima volta che il grigio del cielo, la nebbia e la pioggerellina insistente perforante ci sopraffaranno, ci siamo detti, scriveremo di nuovo qualcosa di simile.
Bastasse per condizionare il tempo…
(Meglio non dirlo in giro).

I giorni di maggio dovrebbero essere tra i più belli dell’anno.
Luminosi – ormai fa buio tardi e l’aria tiepida carezza la pelle – frizzanti, profumati, colorati variopinti ovunque di fiori al loro apice. Multicolori.
Invece questi giorni di meraviglia sono grigio verde.
Grigio del cielo e dell’orizzonte, verde della vegetazione che, senza fiori, deborda. Perché piove e piove e ancora piove: come tutti gli anni ormai. Nelle valli la primavera non viene più.
Unico a riscaldare il cuore, a strappare un sorriso, il cuculo.
Il suo cucù, cucù, cucù risuona ancora. Anche questa volta ce l’ha fatta a tornare da noi. Uno, forse due, in tutto il vallone.
Un tempo, non remoto, erano molti i cuculi a cantare – Cuculus canorus non a caso per i sapienti. Si chiamavano e si rispondevano, da un poggio all’altro, dalle creste alle radure, dai crinali ai ruscelli.
Erano tanti, come del resto erano tanti gli uccellini della cui casa il cuculo si serve per mettere su famiglia.
Il cuculo non costruisce nido ma depone le uova in quello degli altri, di codirossi, capinere, lui, pettirossi e via elencando. Anche loro diventati rari.
È una storia che si ripete. Le specie che non ci sono più.
I vecchi ci parlavano dell’averla maggiore, dargna gaia: noi non l’abbiamo mai vista.
Quando eravamo bambini le averle piccole erano numerose ovunque, adesso non se ne scorge una nemmeno a pagarla.
Da ragazzi nelle radure non era così raro scoprire i segni del gufo: adesso più nulla.
È tutto più povero.

Cuculi – Foto F. Colombo, Museo Civico Lentate

Sarà che siamo vecchi e la vista, assieme all’udito, comincia a farci difetto.
Sarà che siamo pure un po’ rimbambiti.
Sarà una realtà locale, speriamo, ma tutto questo, pensando a che mondo stiamo per lasciare a chi ci seguirà, ci rattrista.
Ci manca il cuculo a cantare dall’alba al tramonto tanto da sentirlo rauco a sera. Come ci mancano gli uccellini. E pure le farfalle ci mancano.
Intanto piove e piove e ancora piove: come tutti gli anni ormai. Nelle valli diventate grigio verdi.
Fortuna che siamo distratti dalle vicende del verme. Intendiamoci, importantissime, vitali, e non per modo di dire.
Si tratta di un’emergenza, non c’è dubbio.
Per noi umani.
Per il cuculo assai meno, come pure per i codirossi, le capinere, i lui e i pettirossi.

Forse dovremmo considerare emergenza anche quella ambientale, quella del clima mutato e a tratti impazzito. Quella delle valli grigio verde.
Magari è emergenza anche per il verme: dovesse mai trovarsi solo soletto, il Cielo non voglia, non avrebbe più nessuno da ammalare.
Oppure è il verme a essere conseguenza di quell’altra emergenza, quella che ignoriamo. Chissà…
Non lo sa nemmeno il cucù, ma il suo essere solo dice che qualcosa non va, che forse di emergenze non ce n’è soltanto una, immediata, perché ci uccide subito.
Il cuculo ce lo ricorda.
Chissà se cominceremo anche noi, ogni tanto, a pensarci?

Cuculo – Foto F. Colombo, Museo Civico Lentate