Le radici calpestate

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Il lontano Colle dell’Assietta

Dal Colle dell’Assietta, una bella e comoda strada militare dismessa conduce al Forte del Gran Seren. Interdetta al traffico veicolare. Il percorrerla è come passeggiare su un balcone, affacciato alla Val Chisone da una parte e alla Valle di Susa dall’altra. Un piacere degli occhi e del cuore.
Quasi sulla sommità un vecchio cartello anni ’50 avvisa che si è sul monte Gran Seren.
Alcuni ruderi, più grandi e maestosi man mano che il passo procede, si offrono alla vista. Il forte.
L’entrata è guardata da due feritoie simili a bocche di forno. Mattoni pieni sistemati ad arte: il pensiero corre ai muli che li hanno portati fin lì, o alle spalle dei soldati. Lentamente, con fatica, con pazienza.
A tempo umano.
Il forte si sviluppa per la maggior parte sotto terra, con una fitta rete di gallerie. Gli ingressi sono in pietra, architettura militare: gradevole. Grandi muraglioni sostengono la terra, dopo tanti anni tornata come alle origini, prima della costruzione del forte, coperta da rada flora coraggiosa, capace di sfidare il freddo e il vento di quel luogo severo.

L’entrata Nord del forte

Come sarebbe bello vedere il forte integro, con muri intatti, archi al loro posto; bastioni solenni a guardare dall’alto chi in basso passa, oppure soltanto il tempo che corre. Come sarebbe bello vedere quel luogo animato dai soldati, dagli Alpini, lì convenuti non per coltivare la guerra ma per erigere una costruzione capace di valicare i secoli. Sarebbe davvero bello. Invece non è detto che i nostri nipoti possano ancora vederle queste splendide rovine, che possano ancora sognare correndole con gli occhi. I crolli si susseguono sempre più frequenti e il tempo graffia sempre più a fondo.

L’ingresso di una galleria

Improvvisa una macchia gialla, stonata e fuori posto. Un cartello. Con sopra una testa di morto.
Perché il luogo, se uno lo frequenta senza attenzione e senza cervello, può essere pericoloso. Come è pericoloso salire su una montagna con la testa chiusa in un sacco. Allora i militari, che ancora oggi sono proprietari del forte, avvisano i distratti: così se qualche babbeo si fa male, non devono pagarlo, che sarebbe davvero troppo.
Attraversiamo lentamente il forte. Le stalle, i depositi, gli ingressi delle gallerie ci sfilano a fianco.
Usciamo e volgiamo un ultimo sguardo alla porta sud. Sotto di lei il muraglione gonfio denuncia la prossima caduta.
Il suolo, gelato nella notte, ha conservato le impronte di chi è passato. Evitiamo di aggiungere le nostre, non per non imbrattarci di fango, ma per rispetto: per lasciare quel luogo esattamente come l’abbiamo trovato.
Ci avviamo alla Caserma, qualche centinaio di metri più in là e più in basso, sul colle.

Il cartello giallo

Mentre andiamo ci viene un dubbio.
Ma quella testa di morto su cartello giallo, invece che significare che ci si può far male, non è che l’abbiano messa lì per dire che in quel luogo muore lentamente la storia e l’opera della gente venuta prima di noi?
Non è che l’abbiano messa su quel palo di ferro per dire che lì muoiono ricordi e sogni, tradizioni, capacità, parole e suoni che nemmeno il vento può recuperare?
Per dire che lì stiamo sotterrando e calpestando le radici?

La caserma del Gran Seren

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