Valchisone

Non è lui ad essere terribile, questo timido fiore bianco, ma il suo nome. E se dal termine popolare, farfaraccio bianco, passiamo a quello erudito, Petasites albus, le cose non migliorano. I nomi sono entrambe poco accattivanti, poco invitanti: diciamo pure bruttini.
Ritrovarsi con nomi impossibili è il triste destino di molte piante e di molti animali. Colpa degli studiosi, intendiamoci, non degli interessati; poco cuore, o poca vista.
Come ci piacerebbe chiamarlo? Fiore bianco, niente più e niente meno, perché non ce ne sono altri di simili a inizio primavera con i quali si possa confondere. La semplicità è la cosa più bella.
Quando il fiore bianco si mostra, nelle zone più fredde e umide nessuno ancora ha fatto altrettanto.
Sboccia sul marrone morto del bosco o sulle rive fredde di torrenti e ruscelli a macchiare di luce quei luoghi rimasti assopiti nel sonno invernale. Il fiore bianco suona la sveglia, con tatto e delicatezza, con gentilezza: dice che è tempo di partire.
E dà l’esempio.
Altro particolare encomiabile, poco diffuso, poco comune.
La fioritura dura parecchio, così che attorno tutto ha tempo a farsi verde. Poi scompare, non si vede più. Arrivederci delicato fiore bianco, al prossimo anno.
E invece no. Tempo di crescere ancora un po’, un paio di mesi, ed ecco i semi, tanti assieme, a fare macchia, ancora bianca. Simili ai denti di leone, meglio noti come girasoli – consolazione delle tavole e dei palati attempati – o come soffioni, che piace di più ai bambini. Perché coi soffioni si gioca – anche da attempati.
Tanti ombrellini assieme, i semi, a formare una palla, un globo; ogni ombrellino un semino. Ogni semino un piccolo aliante. Tutti pronti a spiccare il volo. Tanto lavoro per la brezza, o per il vento, se dovrà arrivare più lontano.
Così l’anno prossimo ci sarà ancora il nostro fiore bianco, dell’umido e del freddo, a carezzarci la vista e a ricordarci che è tempo di andare, e correre e fare in fretta.
Ché è peccato sprecare anche un istante di primavera soltanto.