
Il sentiero per raggiungere Côto Rauto – in patois Costa Ripida – parte da Clos Beiran, un incantevole villaggio di Inverso Pinasca; poche case ristrutturate con grazia e buon gusto, rispettando i canoni dei luoghi e la memoria dei padri che lì sono vissuti.
Quello per Côto Rauto più che un sentiero è un ascensore. Un percorso ripidissimo, verticale. Ben segnato.
Le foglie dell’autunno, non addomesticate dalla neve di un inverno primaverile e nemmeno disperse dal vento, coprono lo spazio dei passi, rendendoli scivolosi e faticosi. Un sentiero bellissimo, con muri di sostegno inferiori a tenerlo dove il suolo chiede un ulteriore sacrificio, pavimentato da pietre centenarie saldate tra loro dal tempo e dalla sapienza di chi quella via ha costruito.
Il bosco accompagna la salita. Piante piccole, che di terra per vivere ne hanno poca, inchiodate al suolo, per offrire compagnia al viandante e chiudere l’orizzonte a negargli la vista della valle che s’allontana sotto di lui.
Si sale, si sale sempre. Le pietre del selciato si susseguono infinite, monotone, come le traversine d’una ferrovia sotto il treno. Un tempo erano certamente pulite, senza foglie e senza detriti a coprirle, a rendere sicuro e meno pesante il passo; ora se ne vede soltanto qualcuna spuntare dal tappeto tessuto dai castagni e dai faggi, a volte la si sente scivolosa sotto il piede.
Infine quando non ci speri più, ecco le rovine di alcune case, pietre e fango a fare muri.
Il segno che la meta è vicina.

Ancora salita, accanto a faggi secolari scolpiti di legno, incastonati tra le rocce che, lo intuisci, coprono tutto sotto un velo di terra.
Poi Côto Rauto.
Case da entrambe i lati del sentiero. Quella a destra è in piedi, ha ancora il tetto.
Porte spalancate, a mostrare come si viveva da quelle parti tanti anni fa.
In una stanza ecco due placar, armadi a muro, senza antine. Fuori, collegato alla casa, l’angusto rifugio delle galline, o forse del maiale: il pursil. A terra, quasi sulla soglia, una brunsa, un pentolone di ghisa, da appendere sul fuoco del caminetto per cuocerci qualche patata, la minestra, o per scaldare il latte per preparare il formaggio.
L’acqua è fuori, più avanti, protetta da una cornice di magnifici muri; sgorga in basso da un canaletto di pietra e cade nel bacias – pozza per gli animali e per il bucato.

Sopra l’acqua, a guardarti improvvisa dritto negli occhi, una targa ricorda il sacrificio di Paolo Diena, il Dottore Partigiano, 22 anni, caduto presso la fonte, assassinato dalle orde repubblichine e naziste l’11 ottobre 1944.
Alcuni fiori finti fasciati di tricolore fanno compagnia alla scritta, assieme ad alcune felci, verdi tutto l’anno: vive, lì poste dal Cielo per pietà e per ricordo.
Davanti, la tomba che per prima accolse le spoglie del Dottore Partigiano di Torino.

Tutto si fa muto di colpo.
Il cuore si ghiaccia.
Non ci sono più case, non ci son più pensieri, non c’è più sentiero lastricato.
La targa e la tomba. Niente altro.
Il quadro gela chi lì è giunto per vedere.
La targa e quella croce di ferro confusa nelle ombre delle piante, terribile a evocare.
Vicino, un pannello spiega quanto è successo tanti anni fa. Mostra il viso di Paolo: un ragazzino.
Su una foto d’epoca, la commemorazione del 1946.
Le case di Côto Rauto erano in piedi e nessuna crepa le feriva, nessun albero le copriva, nessuna ombra inciampava lo sguardo. Dietro, campi coltivati.
Tutte donne in quella foto, una in ginocchio; donne giovani e donne anziane, e bambine. In preghiera.
Figlie di questa terra che ci ha visto oggi salire col fiatone, nostre sorelle e del Dottore Partigiano.
Anche noi ci siamo inginocchiati.
