Lo sguardo del tempo

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Tra gli Eymar e i Cerisieri, Pomaretto, in prossimità di un tornante destro per chi sale, parte un sentiero che conduce alla Roccho ‘d l’Ampereur dove si svolse un’importante pagina della storia Valdese risalente al XVII secolo.
Lo stesso sentiero, ad un certo punto prendendo la sinistra, porta alla borgata Roccha. Un po’ di saliscendi tra i boschi, parte in ombra fitta, parte al sole.
Bello il sentiero, che a tratti mantiene le antiche fattezze: muretti a valle e a monte, pietre saldamente incastrate al suolo a rendere sicuro il passo. In certi punti quasi sospeso sulla riva che scende a precipizio sul ruscello.
Poi le case, tutte in rovina, incastonate tra gli alberi ormai cresciuti grandi perché da tempo nessuno cura quel luogo.
Come gli alberi hanno fatto rete tra loro, così anche le case sono tutte abbracciate; costruite così bene che il tempo tribola ad averne ragione, a cancellarne il volto.
Muri perfetti, piccoli architravi in pietra; un balcone che ha retto fino ad oggi, scopri che non è di legno come sempre nei villaggi alpini, ma fatto d’una unica grande lastra, una losa gigante.
Ha retto il passaggio degli uomini quel balcone di pietra, ha tenuto testa al tempo e protetto quanto c’era di sotto, cantina o stalla, difficile dire.
Si giunge alle case provenendo da Sud, dalla riva profonda e fredda del ruscello, dal buio rispetto al resto del sentiero e le case, poste sul crinale, segnano il confine tra una terra severa e un pianoro appena appena inclinato, dove si legge dovevano essere le coltivazioni. Ci sono i bari – terrazzamenti – i passaggi; il necessario per coltivare la terra.
Colpisce un’altra via, più ampia, che raggiungeva la piccola borgata, affiancata da alti muri con il duplice scopo di impedire alle bestie d’invadere i campi, patate o granetto, e al tempo stesso di trovare posto alla montagna di pietre strappate alla montagne per ricavarne quei campi.
Un lavoro immenso, scordato. La capacità di strappare con maestria a una terra difficile il cibo sufficiente per alcune famiglie.
La via principale era quella dei muretti, esposta al sole; difficile pensare si potesse passare dal sentiero del ruscello quando metri di neve occupavano il suolo. Il clima non era quello malato di oggi e il freddo in inverno regnava sovrano.
Difficile immaginare la vita tra quelle case, immaginare come scorresse il tempo, le stagioni, come si svolgessero i lavori, cadenzati nell’arco dell’anno dal sole e dalla luce e da niente altro.
Oggi si parla, come si trattasse d’una nostra invenzione, di sostenibilità ambientale, di chilometri zero, di cibo biologico, di riciclo dei materiali. Alla Roccha queste cose erano ben note. E praticate. Probabilmente più per necessità che per virtù. Ma praticate.
Quanto tempo è trascorso.
Tempo che piano piano nasconde e richiude nella montagna il segno e il ricordo di quanto dalla montagna l’uomo aveva fatto emergere.
Perché il tempo guarda avanti. Non conosce ieri e vive di domani.
Quanto agli uomini, sarebbe bello se ogni tanto si voltassero a scoprire da dove giungono e quanta strada altri han fatto per loro.
Aiuterebbe a scorgere il futuro.

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